Dall'antica tradizione orale al rap

3. RIFLESSIONE. IGIABA SCEGO: DALL’ANTICA TRADIZIONE ORALE AL RAP

Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2007 riprendiamo il seguente articolo apparso col titolo "Dalla antica tradizione orale i codici linguistici della poesia rap".
Sommario: "Dal Senegal come dalla Parigi della diaspora, il genere si irradia e raggiunge i ragazzi nella babele africana, passando dallo swahili, dal wolof, dall’arabo a lingue trasversali, addomesticando lungo il percorso le versioni ‘broken’ di inglese, francese e portoghese Lo smarrimento delle nuove generazioni e la gioia di trovare parole nuove per suoni antichi. A mezzo secolo di distanza dalla stagione delle indipendenze".

di Igiaba Scego.


Granada’s wall, Andalucia, 16.8.2007

In Africa – non importa quale, se quella di Timbuktu o quella di Centocelle – miscelare e’ la parola d’ordine. Lo si fa per ri-raccontare un continente a se stesso, una vita a se stessa. L’Africa non e’ solo guerra, solo machete. E’ anche (soprattutto) memoria mai sopita che si fa lingua e movimento. Corpi che si sfiorano, si toccano, si amalgamano, copulano – corpi giovani, soprattutto, che vivono nelle megalopoli di fumo, ferraglia e stridori demoniaci.
I giovani sono arrabbiati, sempre e dovunque. Ma nel continente devono fare i conti con qualcosa di piu’, il malcontento, il disgusto. Questi giovani non hanno sperimentato la felicita’ forse ingenua degli anni Sessanta, non hanno vissuto l’effervescenza postcoloniale, non hanno tremato per gli ideali panafricani. Molti poi hanno l’Africa solo nel sangue, non ci sono nemmeno nati. Sono seconde generazioni: sradicati, doppi, incasinati. A questi ragazzi oggi la storia, quella che tritura, ha portato il conto da saldare: dittatori sanguinari, multinazionali predatrici, emorragie di immigrati verso il Nord, fuga di cervelli, disboscamento, rifiuti tossici, guerre civili, genocidi, stupri, paura. A cinquant’anni dall’indipendenza del Ghana, a cinquant’anni da un sogno, l’Africa festeggia la sua liberta’ tra le macerie. Ma e’ stata vera liberta’? Liberta’ da chi l’ha stuprata per secoli? Il gigante oggi sembra stare peggio di prima, soffocato da polipi urbani, malattie apocalittiche, capi inetti. Guardando il carnet di ballo del continente viene voglia di rimpiangere Bokassa e Idi Amin Dada. Si rimpiangono i mostri, perche’ quelli di adesso sembrano piu’ pericolosi, privi di pieta’. Perche’ la felicita’ sembra aver abdicato per sempre in questi luoghi.
Sono furiosi i giovani. Alcuni per rabbia imbracciano kalashnikov al soldo dei soliti noti, altri entrano nelle gang dei quartieri ghetto del Nord. I piu’ fortunati invece fanno musica, non una qualsiasi, ma il rap: che e’ insieme poesia e slogan, vernacolo e virtuosismo. In queste note sincopate i giovani trovano una logica che sembra impossibile da ottenere in questa vita. Per i ragazzi, in Africa, il rap e’ diventato una bandiera, quel rap nato nei ghetti neri americani tra gang e pistolettate, a Dakar o a Mogadiscio prende i colori arcobaleno della pace. E’ rivolta, ma allo stesso tempo speranza.
Arrabbiato si, ma con un progetto, il rap in Africa – parola e ritmo, verso e denuncia – e’ pedagogia dell’essere. Racconta a chi non sa leggere e scrivere o a chi deve sopravvivere. Racconta il quotidiano e l’epico: chi si e’, chi si e’ stati, cosa succede, cosa succedera’. Ha un po’ la stessa funzione degli affreschi nelle chiese romaniche d’Occidente, la’ era la Bibbia a essere raccontata, qui la vita. I testi parlano di Aids, di poverta’, di memoria, di conflitti etnici. Testi di poesia, perche’ il rap e’ una strana creatura ibrida che vive sospesa tra letteratura e musica. Da Dakar, Dar-Es-Salam e dalla Parigi della diaspora, il genere si irradia e raggiunge i ragazzi nella babele di tutto il continente, passando come nulla dalla potenza dello swahili, del wolof, dell’arabo a lingue trasversali, il somalo, lo haussa, il bamilike’, addomesticando lungo il cammino le versioni broken di inglese, francese e portoghese. Perche’ il rap – ma il discorso vale per tutta la nuova produzione artistica dell’Africa, dal cinema alle arti visive alla scrittura – non e’ imitazione come molti credono, e’ contaminazione.
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Al continente gli occidentali tendono a pensare come a un monolite tutto uguale, chiuso all’esterno, perso nelle sue tragedie, tutt’al piu’ pronto a dispensare al mondo tesori di primitivita’. E cosi’ dimenticano che negli ultimi due secoli l’Africa ha generosamente dispensato cultura (le radici afro del jazz, del blues, perfino del tango di Astor Piazzolla, volendo restare nell’ambito della musica), ma ha anche saputo calarsi in quello che adesso viene definito come il processo globale di scambi, attingendo nuova linfa dagli Stati Uniti e da Cuba, dal nordeste brasiliano o dai quartieri gitani di Siviglia. Una contaminazione che recupera anche una certa vena tradizionale, come nel caso dei cantori del Corno d’Africa, dagli etiopi azmari ai gabey della Terra di Punt. In questo pezzo tribolato di continente antiche oralita’ si fondono con un moderno ibridato. Come i loro antenati trovatori i rapper rispondono alle provocazioni verbali con equilibrismi grammaticali. Come l’oralita’ tradizionale il rap e’ governato da codici linguistici: ogni rima, ogni gesto, ogni accento e’ codificato nell’ambito di un rituale quasi sacralizzato. L’esito di una sfida poetica (sia nel rap, sia nella poetica tradizionale) e’ incerto. I duellanti devono costruire il loro discorso poetico a seconda delle parole e delle pause dello sfidante.
Esempio concreto gli Xplastaz. Nome da giochetto della playstation, il gruppo nasce nel cuore della terra Masai ad Arusha, in una zona della Tanzania conosciuta per le savane e il cratere di Ngorongoro. Vite passate in agglomerati urbani fatiscenti a fare piccoli lavori e a strimpellare storie di ordinaria quotidianita’, con una sensazione di perdita, di smarrimento. Poi l’incontro casuale con il giovane cantante masai, Yamai Ole Meipuko, e la nascita di un sodalizio. Attraverso Yamay (che ora fa parte del gruppo con il nome di Merege) e’ stato possibile recuperare una lingua perduta e ripercorrere le orme di Ngugi wa Thiong’o che, prima di loro, ha scelto di ritrovare il suo essere occultato, il suo nome cancellato. Anche il grande scrittore somalo Nuruddin Farah deve parte della sua fortuna ai trovatori che attraversando i secoli si sono posati sulla sua spalla raccontandogli l’inaccessibile: paragoni con il mondo animale, proverbi, citazioni, contrapposizioni oniriche. E lo stesso vale per i moderni cantanti somali (tra rap e folclore) Waahaya Cusub, di cui gira una strana canzone nei sobborghi di Eastleig, la little Mogadishu di Nairobi. La canzone si intitola Cudur, malattia, e parla di Aids in una comunita’ dove il sesso e’ tema tabu’. Ma lo fa attraverso un duello verbale e una logica di codici classici. Tanto Farah quanto i Waahaya Cusub attingono dunque dalla stessa cesta. E’ sempre stato e sempre sara’ cosi’, soprattutto se si creeranno come oggi occasioni di incontro e scambio, luoghi dove musica e letteratura si fanno crocevia di esperienze diverse, come l’ormai famoso Gabao hip hop festival di Libreville. Del resto, in Senegal l’associazione degli scrittori ha inserito il rap nella Nuova antologia della poesia senegalese. E in un continente pieno di incomprensioni questo e’ un reale spiraglio di dialogo.

zaitself

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