Anatomia della creatività

[…] Secondo Andreasen, la depressione è legata allo "stile cognitivo", che rende alcune persone più inclini a produrre opere d'arte. Nel processo creativo, spiega, "una delle qualità più importanti è la perseveranza". Sulla base dei suoi studi, la scienziata ha scoperto che "gli scrittori di successo sono come i campioni di pugilato: nonostante i colpi che ricevono non vanno mai al tappeto. Resistono fino a quando non trovano la strada giusta". Pur ammettendo il disagio causato dalla malattia mentale, Andreasen sostiene che in molte forme di creatività la concentrazione alimentata dalla depressione costituisce un vantaggio. "Purtroppo il pensiero creativo è spesso legato al dolore", dice. "Chi è fuori dal comune, soffre sempre". Ci sono poi i vantaggi dell'odio per se stessi, che è uno dei sintomi della depressione. Quando una persona rimugina, non vede mai le cose positive: si concentra solo su quello che va storto. Anche se chi ha questo atteggiamento di solito si chiude in sestesso e si rifiuta di comunicare, è stato dimostrato che l'infelicità può migliorare le capacità espressive. Forgas ha scoperto che chi è triste si esprime in modo più chiaro e incisivo, e che la depressione "favorisce una comunicazione più concreta ed efficace". Chi è più severo nei confronti di se stesso, scrive in uno stile più raffinato, levigato dall'angoscia. […]

tratto da Internazionale, n. 841, 9/15 aprile 2010. pg. 41.

Rap o Reggae ?

Quando l’ignoranza diventa presunzione

 

Di generi e altre questioni

 

 

 

Recentemente, in occasione della preparazione dell’esame che dovrò sostenere a breve di Letteratura Contemporanea, in uno dei libri a me assegnato- Modi della poesia italiana contemporanea di Giovannetti – mi sono imbattuto in un’affermazione, a dir poco, bizzarra. L’emerito professore di Letteratura Contemporanea dell’Università IULM di Milano – una delle più prestigiose di Milano è d’Italia – nel presentare parallelismi tra la poesia dialettale secondonovecentesca e la “canzone” italiana (anch’essa secondonovecentesca) ha sostenuto: < Se si assume come riferimento primario il 1984, anno in cui Fabrizio De André pubblica il disco Creuza de mà, e se lo si integra con l’anno 1991 quando comincia l’attività discografica del gruppo rap salentino Sud Sound System – uno dei primi a usare il dialetto entro un genere praticato dai giovani neri delle metropoli nordamericane -, si coglie l’eccezionale vitalità delle parlate locali di molte zone d’Italia. > Ora, lasciando stare l’affermazione di principio ( e di fondo) che di per se è corretta – anche se rispetto alla spinta dialettale nella musica italiana è ben più notabile e importante il contributo fornito dai 99 Posse, attivi prima, per altro, dei Sud Sound System – quello che balza subito agli occhi è un errore grossolano e madornale, tanto più inaccettabile quando il contesto in cui viene elaborato è, per così dire, “istituzionale”, accademico. Mi riferisco all’attribuzione dell’etichetta di gruppo rap al gruppo salentino, maggiormente enfatizzata con la comparazione fatta con i gruppi nordamericani iniziatori del genere. È risaputo, anche da chi di musica poco o niente si intende, che i Sud Sound System, praticano un  genere ben diverso da quello rap, le cui radici – oltretutto- sono rintracciabili in aree geografiche completamente diverse (il rap nasce in nordamerica ed il reggae – genere praticato dal gruppo in questione, anche se nella sua variante più diffusa – nasce in Giamaica). Ora, se è pur vero che qualche traccia di rap nei Sud Sound System è rintracciabile, è pur vero che i generi sono diversi, se non opposti. Oltre alla differenziazione ritmica e stilistica (il reggae usa tempi in levare e una certa melodia canora, il rap usa tempi in battere e uno stile canoro assolutamente personale definito “rappata”) è presenta anche quella tematica, che se pur, per certi aspetti vicina, si riferisce a realtà assolutamente diverse. Vedete bene che l’affermazione fatta dal professor Giovannetti è assolutamente errata e tanto più rischiosa quanto pronunciata in un contesto come questo (accademico appunto), e presentata come “verità” a studenti (e professori) che forse ignari la prenderanno per buona. E risulta, oltretutto, offensiva, sia agli appartenenti al genere rap, sia agli appartenenti al genere reggae. Non perché trai due generi vi sia contrasto, ma perché in entrambi, un aspetto fondamentale è l’appartenenza ad un genere, che viene continuamente enfatizzata nei testi.

Questo è quanto, giudicate voi.

 

Esse

30.000 desaparecidos, 30 anni dopo. Le nonne di Plaza da Mayo

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 134 del 25 ottobre 2007

In questo numero:
Rita Arditti: Le Nonne di plaza de Mayo

TESTIMONIANZE. RITA ARDITTI: LE NONNE DI PLAZA DE MAYO
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento dal
titolo originale "Alle Nonne piace il rock".
Rita Arditti e’ docente universitaria corrispondente per "We News"; nata in
Argentina, lavora e vive a Cambridge, in Massachusetts; e’ autrice di Alla
ricerca della vita: le Nonne di Plaza de Mayo e i bambini scomparsi
dell’Argentina, University of California Press, Berkeley, 1999]

Questo mese segna il trentesimo anno di ricerca. Sin dal 22 ottobre 1977
dozzine di donne,
i cui figli e figlie erano stati rapiti e presumibilmente
uccisi durante la sanguinosa dittatura militare che resse l’Argentina dal
1976 al 1983, hanno tentato di ricongiungere le generazioni. I loro figli e
nipoti sono tra i 30.000 che scomparvero nel corso della cosiddetta "sporca
guerra".
Sebbene la maggioranza di costoro fosse morta durante la dittatura,
le testimonianze dei sopravvissuti di oltre 350 campi di detenzioni
clandestini indicavano che i loro nipoti potevano essere vivi.
Per tre decadi le Nonne di Plaza de Mayo hanno cercato questi bambini
perduti.
Il loro nome deriva dai giovedi’ passati nella piazza centrale di
Buenos Aires a protestare per la scomparsa di figli e nipoti. Ma
recentemente, per la consolazione delle Nonne, la ricerca sta andando anche
in altre direzioni. Come risultato di un programma iniziato nei primi anni
’90 con gruppi giovanili ed artistici, sono i giovani ora adulti con domande
sulla propria identita’ a cercare le Nonne.
"Abbiamo a lungo detto che sarebbe venuto il giorno in cui sarebbero stati i
nostri nipoti a cercarci, e quel giorno e’ venuto
", dice Rosa Roisinblit, 88
anni, vicepresidente delle Nonne di Plaza de Mayo, che ha ritrovato il
proprio nipote nel 2000, grazie ad una telefonata anonima fatta all’ufficio
del gruppo. Fino ad ora, le Nonne hanno aiutato ottantotto giovani uomini e
donne a ritrovare la propria identita’.

Lo scorso luglio, in una storia assai riportata dai principali media
argentini, Maria Belen Altamiranda, residente a Cordoba, ha scoperto a 29
anni chi fossero i suoi genitori: grazie alle Nonne, ad un’amica e ad un
gruppo rock. "L’incontro e’ stato intenso, commovente, pieno di sentimenti
contrastanti
", ha detto Maria del suo incontro con i parenti sopravvissuti,
"Sono felice di averli ritrovati, ed allo stesso tempo tutto questo e’
terribilmente triste
". Il viaggio di Maria comincio’ nel 2005, quando
confido’ ad un’amica che voleva sapere chi fossero i suoi genitori
biologici. L’amica aveva visto un annuncio delle Nonne in tv, come parte di
un video di un gruppo rock argentino, i Bersuit Vergarabat, che sono dei
grandi sostenitori del lavoro delle Nonne sin dal 1998. Nel 2003 le
presentarono a ventimila persone durante un concerto. L’amica diede a Maria
il "numero verde" delle Nonne, che sin dagli anni ’80 avevano lavorato con
alcuni scienziati per sviluppare un test genetico del sangue (detto poi
"l’Indice delle Nonne") che permettesse l’identificazione dei bambini
rapiti. Nel 1987 fu creata la banca dati genetica nazionale, e le Nonne vi
depositarono il loro sangue. Il test di Maria le fece scoprire di essere
nipote di Irma Rojas, settantaduenne che fa parte delle Nonne.
Un altro alleato importante nel mettere in contatto i giovani con le Nonne
e’ il "Teatro per l’Identita’", un gruppo di giovani artisti di Buenos Aires
che scrive e recita pezzi sull’identita’ e il potere. Ogni anno, migliaia di
persone partecipano alle loro rappresentazioni settimanali gratuite in varie
parti della capitale. Dopo ognuno di questi eventi, dozzine di giovani
chiamano le Nonne per chiedere informazioni: anche se non sono figli di
"desaparecidos" vengono comunque aiutati a scoprire le proprie origini
biologiche. Il lavoro delle Nonne ha condotto al concetto di un nuovo
diritto umano: il diritto all’identita’, che include il poter conoscere
nazionalita’, nome e relazioni familiari. Nel 1989 questo diritto divenne
parte della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Bambino, come
articolo 8, chiamato da molti "l’articolo argentino".
In molti casi, le Nonne hanno scoperto che i bambini scomparsi venivano dati
come "bottino di guerra" a membri della polizia o dell’esercito. Altre volte
venivano abbandonati per strada, senza alcun segno di identificazione.
Separare i bambini dalle loro legittime famiglie era un modo per prevenire
che crescessero odiando il regime,
e per punire i loro parenti dell’aver
generato dei "sovversivi". Nello studio che hanno pubblicato quest’anno, le
Nonne documentano l’esistenza di nove campi in cui vi erano 96 donne incinte
fra i 1.466 detenuti e scomparsi. La maggior parte di esse venne uccisa dopo
il parto.

"Un nuovo livello di lotta ha avuto inizio quando ho seppellito mia figlia",
racconta Estela Barnes de Carlotto, settantaseienne, presidente delle Nonne
dal 1989, ed una dei pochi membri che abbia potuto ritrovare un corpo, "Ho
saputo che mia figlia, mentre si trovava nel campo di tortura, diceva
ripetutamente ai suoi amici: Finche’ vive, mia madre non perdonera’
l’esercito. E aveva ragione. Mi conosceva meglio di quanto mi conoscessi io.
Se qualcuno mi avesse detto che avrei dedicato la mia vita alla ricerca
della verita’, e alla lotta contro l’amnesia storica, non lo avrei mai
creduto
".
Una notte del 2002, la casa di Estela a La Plata e’ stata letteralmente
farcita di pallottole, ma la Nonna e’ sopravvissuta al tentativo di
assassinarla. Nel 2003, e’ stata una dei cinque premiati dalle Nazioni Unite
per la difesa dei diritti umani.
Le "leggi sull’amnistia" del 2005 che avevano impedito di portare in
giudizio i perpetratori delle atrocita’ sono state annullate, e nel 2007 il
"perdono presidenziale" e’ stato dichiarato incostituzionale.
Uno dei casi
su cui le Nonne stavano lavorando da anni ha fornito l’evidenza necessaria
che ha condotto all’annullamento di tali leggi. Nel luglio scorso, Estela
Barnes de Carlotto, e’ stata inclusa nella rosa dei candidati al Premio
Nobel per la Pace,
poi attribuito ad Al Gore. Quando ha saputo della nomina,
dice, ha provato una grande emozione ma ha anche messo subito in chiaro che
se mai il premio le fosse stato conferito doveva riguardare tutte le Nonne,
perche’ nulla di quello che Estela ha fatto in questi anni lo ha fatto da
sola.
*
Il sito delle Nonne di Plaza de Mayo e’ : www.abuelas.org.ar

Dall'antica tradizione orale al rap

3. RIFLESSIONE. IGIABA SCEGO: DALL’ANTICA TRADIZIONE ORALE AL RAP

Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2007 riprendiamo il seguente articolo apparso col titolo "Dalla antica tradizione orale i codici linguistici della poesia rap".
Sommario: "Dal Senegal come dalla Parigi della diaspora, il genere si irradia e raggiunge i ragazzi nella babele africana, passando dallo swahili, dal wolof, dall’arabo a lingue trasversali, addomesticando lungo il percorso le versioni ‘broken’ di inglese, francese e portoghese Lo smarrimento delle nuove generazioni e la gioia di trovare parole nuove per suoni antichi. A mezzo secolo di distanza dalla stagione delle indipendenze".

di Igiaba Scego.


Granada’s wall, Andalucia, 16.8.2007

In Africa – non importa quale, se quella di Timbuktu o quella di Centocelle – miscelare e’ la parola d’ordine. Lo si fa per ri-raccontare un continente a se stesso, una vita a se stessa. L’Africa non e’ solo guerra, solo machete. E’ anche (soprattutto) memoria mai sopita che si fa lingua e movimento. Corpi che si sfiorano, si toccano, si amalgamano, copulano – corpi giovani, soprattutto, che vivono nelle megalopoli di fumo, ferraglia e stridori demoniaci.
I giovani sono arrabbiati, sempre e dovunque. Ma nel continente devono fare i conti con qualcosa di piu’, il malcontento, il disgusto. Questi giovani non hanno sperimentato la felicita’ forse ingenua degli anni Sessanta, non hanno vissuto l’effervescenza postcoloniale, non hanno tremato per gli ideali panafricani. Molti poi hanno l’Africa solo nel sangue, non ci sono nemmeno nati. Sono seconde generazioni: sradicati, doppi, incasinati. A questi ragazzi oggi la storia, quella che tritura, ha portato il conto da saldare: dittatori sanguinari, multinazionali predatrici, emorragie di immigrati verso il Nord, fuga di cervelli, disboscamento, rifiuti tossici, guerre civili, genocidi, stupri, paura. A cinquant’anni dall’indipendenza del Ghana, a cinquant’anni da un sogno, l’Africa festeggia la sua liberta’ tra le macerie. Ma e’ stata vera liberta’? Liberta’ da chi l’ha stuprata per secoli? Il gigante oggi sembra stare peggio di prima, soffocato da polipi urbani, malattie apocalittiche, capi inetti. Guardando il carnet di ballo del continente viene voglia di rimpiangere Bokassa e Idi Amin Dada. Si rimpiangono i mostri, perche’ quelli di adesso sembrano piu’ pericolosi, privi di pieta’. Perche’ la felicita’ sembra aver abdicato per sempre in questi luoghi.
Sono furiosi i giovani. Alcuni per rabbia imbracciano kalashnikov al soldo dei soliti noti, altri entrano nelle gang dei quartieri ghetto del Nord. I piu’ fortunati invece fanno musica, non una qualsiasi, ma il rap: che e’ insieme poesia e slogan, vernacolo e virtuosismo. In queste note sincopate i giovani trovano una logica che sembra impossibile da ottenere in questa vita. Per i ragazzi, in Africa, il rap e’ diventato una bandiera, quel rap nato nei ghetti neri americani tra gang e pistolettate, a Dakar o a Mogadiscio prende i colori arcobaleno della pace. E’ rivolta, ma allo stesso tempo speranza.
Arrabbiato si, ma con un progetto, il rap in Africa – parola e ritmo, verso e denuncia – e’ pedagogia dell’essere. Racconta a chi non sa leggere e scrivere o a chi deve sopravvivere. Racconta il quotidiano e l’epico: chi si e’, chi si e’ stati, cosa succede, cosa succedera’. Ha un po’ la stessa funzione degli affreschi nelle chiese romaniche d’Occidente, la’ era la Bibbia a essere raccontata, qui la vita. I testi parlano di Aids, di poverta’, di memoria, di conflitti etnici. Testi di poesia, perche’ il rap e’ una strana creatura ibrida che vive sospesa tra letteratura e musica. Da Dakar, Dar-Es-Salam e dalla Parigi della diaspora, il genere si irradia e raggiunge i ragazzi nella babele di tutto il continente, passando come nulla dalla potenza dello swahili, del wolof, dell’arabo a lingue trasversali, il somalo, lo haussa, il bamilike’, addomesticando lungo il cammino le versioni broken di inglese, francese e portoghese. Perche’ il rap – ma il discorso vale per tutta la nuova produzione artistica dell’Africa, dal cinema alle arti visive alla scrittura – non e’ imitazione come molti credono, e’ contaminazione.
*
Al continente gli occidentali tendono a pensare come a un monolite tutto uguale, chiuso all’esterno, perso nelle sue tragedie, tutt’al piu’ pronto a dispensare al mondo tesori di primitivita’. E cosi’ dimenticano che negli ultimi due secoli l’Africa ha generosamente dispensato cultura (le radici afro del jazz, del blues, perfino del tango di Astor Piazzolla, volendo restare nell’ambito della musica), ma ha anche saputo calarsi in quello che adesso viene definito come il processo globale di scambi, attingendo nuova linfa dagli Stati Uniti e da Cuba, dal nordeste brasiliano o dai quartieri gitani di Siviglia. Una contaminazione che recupera anche una certa vena tradizionale, come nel caso dei cantori del Corno d’Africa, dagli etiopi azmari ai gabey della Terra di Punt. In questo pezzo tribolato di continente antiche oralita’ si fondono con un moderno ibridato. Come i loro antenati trovatori i rapper rispondono alle provocazioni verbali con equilibrismi grammaticali. Come l’oralita’ tradizionale il rap e’ governato da codici linguistici: ogni rima, ogni gesto, ogni accento e’ codificato nell’ambito di un rituale quasi sacralizzato. L’esito di una sfida poetica (sia nel rap, sia nella poetica tradizionale) e’ incerto. I duellanti devono costruire il loro discorso poetico a seconda delle parole e delle pause dello sfidante.
Esempio concreto gli Xplastaz. Nome da giochetto della playstation, il gruppo nasce nel cuore della terra Masai ad Arusha, in una zona della Tanzania conosciuta per le savane e il cratere di Ngorongoro. Vite passate in agglomerati urbani fatiscenti a fare piccoli lavori e a strimpellare storie di ordinaria quotidianita’, con una sensazione di perdita, di smarrimento. Poi l’incontro casuale con il giovane cantante masai, Yamai Ole Meipuko, e la nascita di un sodalizio. Attraverso Yamay (che ora fa parte del gruppo con il nome di Merege) e’ stato possibile recuperare una lingua perduta e ripercorrere le orme di Ngugi wa Thiong’o che, prima di loro, ha scelto di ritrovare il suo essere occultato, il suo nome cancellato. Anche il grande scrittore somalo Nuruddin Farah deve parte della sua fortuna ai trovatori che attraversando i secoli si sono posati sulla sua spalla raccontandogli l’inaccessibile: paragoni con il mondo animale, proverbi, citazioni, contrapposizioni oniriche. E lo stesso vale per i moderni cantanti somali (tra rap e folclore) Waahaya Cusub, di cui gira una strana canzone nei sobborghi di Eastleig, la little Mogadishu di Nairobi. La canzone si intitola Cudur, malattia, e parla di Aids in una comunita’ dove il sesso e’ tema tabu’. Ma lo fa attraverso un duello verbale e una logica di codici classici. Tanto Farah quanto i Waahaya Cusub attingono dunque dalla stessa cesta. E’ sempre stato e sempre sara’ cosi’, soprattutto se si creeranno come oggi occasioni di incontro e scambio, luoghi dove musica e letteratura si fanno crocevia di esperienze diverse, come l’ormai famoso Gabao hip hop festival di Libreville. Del resto, in Senegal l’associazione degli scrittori ha inserito il rap nella Nuova antologia della poesia senegalese. E in un continente pieno di incomprensioni questo e’ un reale spiraglio di dialogo.

zaitself

.