SOLDATI U.S.A. in IRAQ, un altro VIETNAM

TESTIMONIANZE di SOLDATI STATUNITENSI OBIETTORI,
raccolte da Peter Laufer

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione questo testo. "Le seguenti testimonianze di soldati statunitensi obiettori rifugiati in Canada sono state raccolte da Peter Laufer del "Sunday Times", e pubblicate il 27 agosto 2006. I dati del Pentagono dicono che circa 40.000 soldati hanno disertato dal 2000 ad oggi, certamente non tutti per rifiuto delle guerre, ma i picchi di ‘sparizione’ si concentrano attorno agli invii di truppe in Afghanistan e Iraq" (nota di Maria G. Di Rienzo).

Darrell Anderson,
First Armored Division, 2-3 Field Artillery, di stanza a Giessen, Germania. Eta’: 24 anni. Si trova a Toronto, Canada.

Darrell Anderson si e’ arruolato prima che la guerra in Iraq cominciasse. "Avevo bisogno di assistenza sanitaria, e di soldi per andare al college, e dovevo prendermi cura della mia figlioletta. Entrare nell’esercito era il solo modo per fare queste cose". Al collo, Darrell porta una catenina con appeso un simbolo pacifista. Dopo aver servito per sette mesi in Iraq, e’ tornato a casa coperto dal sangue delle proprie ferite, che gli sono valse l’onorificenza "Purple Heart", ed ha aperto gli occhi.
"Quando mi sono arruolato, volevo davvero combattere. Volevo vedere la lotta, essere un eroe. Volevo salvare persone. Volevo proteggere il mio paese". Ma poco dopo il suo arrivo in Iraq, mi dice, ha compreso che gli iracheni non desideravano la sua presenza, e ha udito storie terribili che lo hanno sconvolto.
"Gli altri soldati mi raccontavano come avevano picchiato prigionieri sino a farli morire. C’erano questi tre ragazzi e uno diceva: Io l’ho preso a calci da questo lato della testa, mentre lui lo prendeva a calci dall’altro lato, e lui gli tirava pugni, ed e’ morto. Erano persone che io conoscevo. Si stavano vantando di questo, di aver battuto un essere umano sino a farlo morire". Darrell lo ripete piu’ volte: "Vantarsi di aver picchiato… Sono assassini addestrati ora. I loro amici sono morti in Iraq. Non sono piu’ le persone che erano prima di andare la‘".
Persino le chiacchiere informali divennero difficili da tollerare, per Darrell Anderson. "Odio gli iracheni, dicevano i miei commilitoni, odio questi dannati musulmani. All’inizio ero perplesso, poi ho cominciato a capire. Mi sembrava di stare iniziando ad odiarli anch’io. I miei amici morivano. Che ci faccio qua, mi chiedevo, siamo andati a combattere per il nostro paese ed ora combattiamo semplicemente per restare vivi".
Oltre ad essere stato colpito dallo shrapnel di una bomba piazzata sulla strada, Darrell dice di essersi spesso trovato coinvolto in scontri a fuoco. Ma fu il lavoro al posto di blocco ad indurlo a mettere seriamente in questione il suo ruolo. Era di servizio ad un checkpoint a Baghdad: se un’automobile passava un certo punto senza fermarsi, lui e le altre guardie dovevano sparare. "Arriva quest’auto davanti alla mia postazione. Sta tentando di frenare piu’ che puo’, si vedono le scintille prodotte da freni in cattive condizioni. Tutti i soldati stanno urlando. L’auto e’ vicina a me, percio’ la responsabilita’ e’ mia. Io non apro il fuoco. Arriva il superiore: Perche’ non spari? Devi sparare! Io rispondo: E’ una famiglia. Intanto l’auto era riuscita a fermarsi del tutto. Non vede i bambini sui sedili di dietro?, dico al superiore, Ho fatto la cosa giusta. No, dice lui, non l’hai fatta: la procedura e’ aprire il fuoco; se la prossima volta non lo fai ti punisco".
Darrell scuote la testa al ricordo. "Continuo a non approvare questa guerra. Non intendo ammazzare innocenti. Non posso uccidere bambini. Non sono queste le cose che mi hanno insegnato mentre crescevo". Mentre osservava le rovine del paesaggio urbano e gli iracheni feriti, Darrell comincio’ a comprendere la risposta irachena. "Se qualcuno facesse quelle cose nella mia, di strada, io prenderei un’arma e combatterei. Non posso uccidere quella gente. Non sono terroristi. Sono ragazzini di quattordici anni, sono anziani. Noi occupiamo le loro strade. Invadiamo le loro case. Preleviamo persone e le portiamo ad essere torturate ad Abu Ghraib. Facciamo questo a gente innocente. Fermiamo le macchine, sconvolgiamo sistematicamente la vita di ogni giorno. Se facessi questo negli Usa, verrei gettato in prigione".
Gli uccellini cinguettano dolcemente mentre Anderson parla, un crudo contrasto con la sua descrizione delle atrocita’ in Iraq. "Non ho sparato a nessuno mentre ero a Baghdad. Quando ci mandarono a Najaf con gli obici uccidemmo centinaia e centinaia di persone. Probabilmente in quel modo io stesso ho ucciso centinaia di persone, ma non direttamente, non stando loro di fronte".
Darrell venne mandato a casa per natale, convinto che sarebbe stato rispedito in Iraq. Sapeva che non poteva piu’ convivere con se stesso se fosse tornato la’, ora che sapeva di prima mano cosa stava accadendo giorno dopo giorno. Decise di non partecipare piu’ alla guerra ed i suoi genitori, che gia’ erano contrari ad essa, sostennero la sua decisione. Il Canada sembrava l’opzione migliore, cosi’ dopo il natale del 2004, Darrell guido’ l’auto dal Kentucky a Toronto.
Ora dice che ha riflettuto molto sul proprio esilio. Non e’ preoccupato dell’eventuale deportazione: di recente ha sposato una donna canadese e cio’ gli garantira’ probabilmente una residenza permanente. Tuttavia, sta pianificando il proprio ritorno negli Usa per questo autunno e si aspetta di essere arrestato quando si presentera’ alle autorita’ di confine. "La guerra sta continuando. Se torno, e’ possibile che questo faccia una differenza. La mia lotta e’ contro il governo americano". Non e’ solo il lavorare contro la
guerra che lo motiva a tornare a casa: "Con gli incubi, e lo stress e i postumi del trauma ho bisogno del sostegno della mia famiglia". Darrell pensa che sara’ arrestato per diserzione, ed intende usare il processo e il tempo della sua detenzione per continuare a protestare contro la guerra in Iraq. Immagina che la vista di un imputato che rifiuta la guerra, in un’uniforme coperta di medaglie ottenute proprio in Iraq, possa essere un’indicazione potente.
"Non posso fingere che tutto vada bene", dice della sua vita a Toronto, "la guerra continua ad incalzarmi. Da quando sono in Canada, non ho mai dormito senza avere incubi. Questa cosa mi divora. Non che venire in Canada sia stata una perdita di tempo: non ero in grado di affrontare la prigione, allora, mi sarei ucciso. Ero troppo confuso persino per pensarci. Devo molto al Canada, mi ha salvato la vita. Quando tornai dalla guerra e ne parlai, gli americani mi chiamavano traditore; i canadesi mi hanno aiutato mentre ero al punto piu’ basso della mia esistenza".

Joshua Key,
43rd Company of Combat Engineers, di stanza a Fort Carson, Colorado. Eta: 28 anni. Si trova a Toronto, Canada

"Viaggiavamo lungo l’Eufrate", racconta Joshua Key, riferendomi nei dettagli la scena in cui si imbatte’ poco dopo l’invasione Usa, nel marzo 2003, "C’e’ una strada che porta diritta alla citta’ di Ramadi. Facciamo una curva secca e tutto quello che vedo sono corpi decapitati. Le teste da una parte e i corpi dall’altra e in mezzo le truppe americane. E penso: Oh mio dio, cos’e’ successo qui? Com’e’ potuto succedere? Scendiamo dal mezzo e ci sono soldati che urlano: Dannazione, ci siamo persi! Io penso: Si’, qualcuno si e’ perso definitivamente qui, per sempre. Mi ordinano di cercare le prove di uno scontro a fuoco, qualcosa che giustifichi gli iracheni decapitati. Guardo in giro, non vedo niente. Due soldati stanno prendendo a calci le teste, come fossero palloni da football. Io chiudo la bocca, torno indietro, salgo sul
carro armato e sbatto il portello e penso: Non posso essere parte di questo. E’ follia. Sono venuto a combattere, sono preparato alla guerra, ma questo e’ orribile
".
Joshua e’ convinto a tutt’oggi che non vi fosse stato alcuno scontro a fuoco. La scena non riesce ad uscire dalla sua mente: "Diversi miei compagni esaminarono il terreno, cercando bossoli residui. Non c’era niente. Continuo a vedere quelle teste dappertutto. Mi sveglio, e sono li’. Non riesco a dormire molto".
Sua moglie, Brandi, annuisce e aggiunge che lo sente piangere durante il sonno. Siamo seduti sulla veranda di una casa di Toronto in cui Key, la moglie e i loro quattro bambini vivono da quando Joshua ha disertato. L’appartamento gli e’ stato offerto gratuitamente, da un proprietario che sostiene la causa degli obiettori. Joshua fuma una sigaretta dietro l’altra e beve caffe’ mentre parliamo. C’e’ della barba appena accennata sul suo volto che pare ancora quello di un ragazzo, i suoi occhi sono stanchi. Mi dice che rigetta l’idea che chi combatte l’occupazione Usa sia un terrorista per definizione. "Li vedevo. Cos’e’ un terrorista? Qui c’e’ la casa di un uomo, qui c’e’ suo figlio, la madre, il padre, la sorella. La casa viene distrutta. I mariti vanno in prigione, e le mogli non sanno neppure dove. Voglio dire, e’ gente che viene continuamente umiliata, ha una ragione per quel che fa. Non vorrei che nulla del genere accadesse alla mia, di famiglia, perche’ dovrei volerlo per le loro?".
Facendo parte delle squadre che pattugliavano le strade irachene, Key riusci’ a parlare con la gente. Fu sorpreso dal constatare quanti parlavano inglese, e molto frustrato dal dover seguire le regole militari che gli impedivano di accettare inviti a pranzo o a far visita alle famiglie. "Non sono una perfetta macchina per uccidere. E’ qui che ho spezzato le regole. Le ho spezzate avendo una coscienza". E piu’ tempo passava in Iraq, piu’ questa coscienza si faceva sentire. "Sono stato addestrato ad essere un omicida. Ho imparato tutto sugli agguati, gli esplosive, le mine antiuomo. Diavolo, se vogliamo essere tecnici, di me e’ stato fatto un terrorista americano. Sono stato addestrato in tutto quello che un terrorista sa fare". Disertare gli sembro’ l’unica alternativa possibile. E lo fece, insiste, soprattutto perche’ il suo presidente gli aveva mentito: per lui era ormai ovvio che l’Iraq non era una minaccia per gli Usa.
Key ricorda altri episodi che lo tormentano ancora. Faceva parte di un convoglio armato quando un furgone iracheno tento’ di sorpassarne la fila. Un uomo della squadra di Joshua Key apri’ il fuoco. "Al primo colpo, il furgone comincio’ a rallentare, e poi lui ne sparo’ un secondo, e quando lo fece, capisci, il furgone esplose. L’ho visto andare in pezzi. Se stava solo andando per i fatti suoi e perche’ aveva tentato di passare avanti… non c’erano ragioni, nessuna ragione… Perche’ era accaduto, e che senso aveva?
Quando lo chiesi mi fu risposto: Non hai visto un bel niente. E nessun altro fece domande
".
Assegnato alla perquisizione di abitazioni, Key fu subito scioccato da quel lavoro: "Voglio dire, la gente urla, sputa i polmoni da quanto grida, e’ traumatico da ambo le parti perche’ qualcuno ti sta urlando qualcosa, magari una donna. E tu le urli di rimando, dicendole di buttarsi a terra o di uscire dalla casa. Lei non capisce cosa stai dicendo tu e viceversa. Mi ha distrutto. Eravamo quelli che si portavano via i loro mariti e i loro figli. E non sai neppure come confortarle, perche’ non sai cosa dire e come dirlo. Quando gli abitanti erano resi inoffensivi, la casa veniva distrutta. Completamente. Se ci sono armadi chiusi li apri a calci. I soldati si prendono quel che vogliono. Saccheggiano come gli pare". Key stima di aver partecipato a circa cento raid di questo tipo. "Non ho mai trovato niente in nessuna casa. Magari trovavi un fucile, per uso personale. Ma non ho mai scoperto le grosse riserve di armi che si supponeva dovessero esserci. Non ho mai trovato membri del partito Ba’ath, terroristi o insorgenti. Non abbiamo mai scoperto niente del genere".
La vita del soldato non era mai stata il sogno di Joshua Key. Viveva a Guthrie, in Oklahoma, e cercava un impiego decente. "All’epoca avevamo due bambini e un terzo in arrivo. Non c’era lavoro li’, quindi non c’era futuro. Naturalmente puoi sempre andare da McDonald, ma non ti paghi le bollette con quel lavoro". La locale stazione di reclutamento comincio’ a sembrare attraente. Poco dopo aver terminato l’addestramento base, Key fu mandato in zona di guerra. Dopo otto mesi passati in Iraq, ricevette due settimane di licenza negli Usa, dopo di che avrebbe dovuto tornare. Key e sua moglie preferirono fare i
bagagli, e fuggire con i loro bambini, nell’intenzione di allontanarsi il piu’ possibile dalla base militare in Colorado. La famiglia resto’ senza denaro a Filadelfia, e Joshua vi trovo’ lavoro come saldatore. Sono vissuti nascondendosi per piu’ di un anno, cambiando frequentemente albergo, preoccupati di restare troppo a lungo in un luogo e quindi di attirare l’attenzione. "Ero diventato paranoico", dice Key, e quello fu il momento in cui penso’ al Canada. La ricerca fu facile: su internet trovo’ tutti i dettagli su coloro che avevano gia’ passato il confine e su chi poteva aiutare gli altri. Joshua e Brandi decisero di optare per una nuova vita come canadesi. "George W. Bush dovrebbe essere il primo ad andare in galera.", dice Key, "Il giorno in cui andra’ in prigione, io andro’ in prigione con lui. Siamo tutti e due colpevoli, se lui finisce dentro posso sopportare di andarci anch’io. Ma questo", conclude ridendo, "non succedera’ mai".

Ryan Johnson,
 211th Armored Cavalry Regiment, di stanza a Barstow, in California. Eta’: 22 anni. Si trova a Toronto, in Canada.

"Avevo due scelte: andare in Iraq e distruggere la mia vita, o andare in prigione e distruggerla lo stesso. Percio’ ho scelto di venire in Canada". Ryan aveva sentito le storie di quelli che dall’Iraq erano tornati. "Non
volevo entrare in quella faccenda
". Gli ricordo che, a differenza dell’epoca del Vietnam, non c’e’ stata alcuna chiamata di leva quando lui ando’ sotto le armi. Non sapeva che il compito dell’esercito e’ uccidere persone? "Si’, e’ vero. Ma allora non capivo cosa significasse uccidere qualcuno o vedere un tuo amico morire. Non ho mai visto morire nessuno. Quando mi sono arruolato l’ho fatto perche’ ero povero". Era difficile trovare lavoro nella sua citta’, Visalia in California, e pensava in questo modo di potersi pagare il college. Quando Ryan si arruolo’ la guerra in Iraq era gia’ in corso e gia’ mandava a casa i cadaveri dei soldati. "Ho parlato con i reclutatori. Ho chiesto: che possibilita’ ci sono che io finisca in Iraq? Mi hanno detto: dipende da che specializzazione scegli. Allora io ho risposto: Quali sono quelle che non mi porteranno in Iraq? Loro hanno snocciolato una lista, e io ne ho scelta una". Ryan Johnson era troppo ingenuo per fare altre domande ai reclutatori dell’esercito, e non mise in discussione le risposte che riceveva. "Avevo vent’anni", dice, un po’ sulla difensiva, "Pensavo che in Iraq si stesse ormai ricostruendo. Pensavo che facessimo cose buone la’. Invece stiamo facendo saltare in aria moschee e musei, le case della gente, la cultura. Voglio dire, io neppure lo sapevo che l’Iraq e la Mesopotamia erano praticamente la stessa cosa. Ci sono storia e cultura in Iraq. Credevo di essere abbastanza istruito, anche se non ho finito il liceo, ma non mi e’ mai stato insegnato nulla sulla storia e la cultura di altri luoghi. E i soldati che vanno in Iraq non lo fanno perche’ sono patriottici, o perche’ pensano che quel paese sia una minaccia per noi. La maggior parte va perche’ gli e’ stato ordinato e perche’ i loro compagni ci vanno. Stavo quasi per farlo anch’io, solo perche’ i miei commilitoni sono la‘". Gli chiedo come si sente a questo proposito, e Ryan diventa pensoso. "Controllo la lista dei caduti ogni giorno", dice infine, "Vado su internet a guardarla per sapere se ci sono i miei amici. Fino ad ora sette persone della mia unita’ sono morte, e io ne conoscevo personalmente quattro". Johnson non vuole considerare la possibilita’ di tornare negli Usa e di passare del tempo in prigione. "Mi sembra assolutamente folle. Ti mettono in galera per cinque anni perche’ hai tentato di non uccidere. Io sapevo che se fossi andato in Iraq avrei ucciso. Magari durante una pattuglia, avrei sparato senza pensare perche’ mi sarei detto: O lui o io. E loro si sentono allo stesso modo. Se non uccidiamo questi tizi, pensano, saranno loro ad ammazzare noi". Ryan spera di restare in Canada, di sentire questo paese come la propria casa. Quando arrivo’ con l’auto al confine, assieme alla moglie, gli e’ stato inaspettatamente dato il benvenuto. "Allungai il documento d’identita’ alla donna che era di guardia, ma lei non lo controllo’ neppure. Benvenuto in Canada, disse. Se’, e’ tutto quel che disse. Benvenuto. Allora io dissi grazie, e attraversammo il confine, e mia moglie Jennifer grido’ di gioia". Il caso di Ryan Johnson e’ ora in appello, poiche’ la sua richiesta per l’ottenimento dello status di rifugiato e’ stata inizialmente respinta dalle autorita’ canadesi.

Ivan Brobeck,
2nd Battalion, 2nd Marine Regiment, di stanza a Camp Lejeune, Nord Carolina. Eta’: 21 anni. Si trova a Toronto, in Canada.

"Non ce la facevo piu‘", dice l’ex caporale Brobeck, "Dovevo andarmene, perche’ la mia unita’ sarebbe stata mandata in Iraq per la seconda volta, e io non ne potevo piu‘". La maggior parte dell’anno 2004 Ivan Brobeck l’ha passata in guerra. Ha combattuto a Falluja, e ha visto i suoi amici morire a causa delle bombe sulle strade. "Tendi ad essere sempre arrabbiato, la’, perche’ combatti per qualcosa in cui non credi e i tuoi compagni ti muoiono intorno". I suoi racconti di guerra sembrano fuori luogo in questo quieto
parco di Toronto. "Durante gli scontri era come se io funzionassi con il pilota automatico. Tendevo solo a sopravvivere. Ho cominciato a pensare a cosa c’era di sbagliato gia’ mentre stavo la’, ma non l’ho capito veramente se non verso la fine, e poi quando sono stato rimandato a casa". Di nuovo alla base di Camp Lejeune, Brobeck inizio’ a riflettere su tutte "le cose orribili che non avrebbero mai dovuto accadere". "Ho visto i pestaggi di prigionieri innocenti. Mi ricordo di quando sentii che qualcosa veniva lanciato dal camion, un mezzo di sette tonnellate, alto poco meno di due metri e mezzo. Avevano gettato giu’ un detenuto, che aveva le mani legate dietro la schiena e un sacco in testa, cosi’ non aveva potuto far nulla per ripararsi dall’impatto. Comincio’ ad aver convulsioni subito dopo la caduta. Gli togliemmo il sacco dalla testa e i suoi occhi erano rovesciati, il naso era pieno di sangue, non riusciva quasi a respirare".
Oltre agli abusi sui prigionieri, fu la regolarita’ delle uccisioni di civili ai checkpoint a sconvolgere il giovane marine. "Erano i miei amici che lo facevano. La cosa ti veniva presentata cosi’: Ehi, oggi tizio e’ un po’ giu’ di corda, ha ucciso un padre di fronte ai bambini. Oppure: Ha ucciso un paio di ragazzini. I marines che facevano queste cose erano i miei amici, le persone con cui parlavo ogni giorno. E’ duro sapere che il tuo miglior amico e’ un assassino di innocenti". Brobeck comincio’ a provare simpatia per il "nemico". "Molte delle persone che ci sparano non sono cattive persone a priori. E’ gente che avuto mogli uccise, figli uccisi, e’ come se cercassero di compensare questo. Hanno perso tanto, e non hanno l’opportunita’ di fare nient’altro". Brobeck era in servizio nei marines da un anno, quando fu mandato in Iraq. "Avevo sempre sentito queste grandi storie sull’esercito Usa, le battaglie vinte e cosi’ via. E fra le forze dell’esercito i marines erano i piu’ duri, i piu’ famosi. Volevo essere dei loro. Ero disposto a rischiare la vita per la causa…", s’interrompe, e infine aggiunge: "se c’e’ una causa". Quale sarebbe una causa per cui valga la pena morire?, gli chiedo. "Una causa buona. Ma questa guerra non e’ di beneficio a nessuno. Non ne traggono vantaggio gli americani, non ne traggono vantaggio gli iracheni. E’ qualcosa per cui nessuno dovrebbe combattere o morire. Vedi, io avevo diciassette anni quando mi sono arruolato, e per tutta l’infanzia non avevo fatto altro che sport o giocare ai videogame. Non prestavo attenzione alle notizie.
Tutta quella roba era noiosa, per me. Ma adesso le notizie le so, e di prima mano
". Lo scorso luglio, l’unita’ di Ivan Brobeck e’ ripartita senza di lui. "Il giorno in cui decisi di andarmene seguii l’impulso del momento. Ci avevo pensato a lungo, ma non riuscivo a decidermi, perche’ disertare e’ una decisione grave, e’ come gettare via un bel po’ della tua vita. Inoltre, non sapevo dove andare. Quella sera mi confidai con un altro marine. Tu sei stato in Iraq, mi disse, io no: hai le tue ragioni per andartene, e non saro’ io a fermarti". La partenza dalla base fu facile: "Andai alla stazione degli autobus, che pero’ era chiusa. Passai la notte in un hotel. La mattina dopo feci il mio biglietto per la Virginia. Ero nervoso, perche’ l’ora della sveglia, le 5,30, era passata e ormai dovevano essersi accorti che non c’ero piu’. Non andai a casa da mia madre, perche’ avevo paura di trovarci la polizia. Andai a stare da un amico". Ventotto giorni dopo, Brobeck si diresse in Canada. Aveva scoperto il sito web di "War Resisters Support Campaign" (Campagna di sostegno per i resistenti alla guerra), un gruppo canadese che organizza gli aiuti ai disertori americani e ora sapeva dove trovare ascolto. "Mi sento piu’ libero di quanto mi sia mai sentito in America. La gente e’ cosi’ gentile in Canada, amichevole. La sola cosa che mi manca sono la mia famiglia e i miei amici. Percio’ questa e’ l’unica cosa che mi manca degli Usa, alcune persone". Nell’anno passato da quando ha attraversato il confine, Ivan ha incontrato e sposato Lisa. "Il mio paese era qualcosa di cui andare fieri, una volta. Se oggi vai in un’altra nazione e dici che sei americano e’ probabile che tu non veda molte facce felici o braccia spalancate, e questo a causa dell’uomo che comanda attualmente. La leadership che abbiamo ha totalmente cancellato qualsiasi rispetto godessimo all’estero. Nel cuore non sono piu’ uno statunitense, intendo se questo significa doversi conformare a quanto loro sostengono sulla guerra in Iraq. Non lo sono piu’ perche’ l’America ha perso il contatto con cio’ che e’ stata. I padri fondatori resterebbero disgustati se vedessero cos’e’ diventata".

SURREALISMO JIHADISTA, di Vik alias Guerrilla Radio

Dialogo immaginario con la Morte, in Irak.

Toc! Toc!

Chi è che bussa alla mia porta?

"Sono La Guerra,
porto in dote La Morte
e vengo a riportarvi indietro una manciata di soldatini di stagno,
ci stavo giocando, si sono rotti."


Ma è terribile!!!

Come è potuto succedere!

I nostri Eroi!

"Sono La Guerra,
vetusta meretrice,
non faccio distinzione fra militare e civile,
ne distinguo classe sociale."


Ma i nostri soldati erano impegnati

in missione di Pace!

"La Pace?
io sono La Guerra.
Guerra e Pace stanno accanto al massimo in un romanzo russo.
Quando ci sono Io non c’è spazio per Lei.
Qui in Iraq poi,
quella fottuta non si è più fatta vedere,
se non nei televisori dei caffè di Baghdad
che rimandavano quelle vostre stupide manifestazioni
nelle quali sfilate con quella ridicola bandiera,
l’unica che non sono riuscita a intingere nel sangue."


Ma i nostri valorosi combattenti!

insomma anche il presidente Ciampi ha parlato di "immenso dolore"!

"Sono la Morte
e adesso
mi spiego un poco.

Ero qui anche ieri,
ho bussato più volte alla vostra porta.
Tenevo in braccio una madre coi suoi figlioletti
uccisi come cani dinnanzi ad un checkpoint americano.
Ho bussato ma non mi avete sentito.

Ero qui anche il giorno prima,
con i resti umani di quella che era una festa di nozze
bombardata per errore dalle vostre bombe intelligenti.
Ho picchiato sui vostri usci con ogni singolo frammento d’ossa,
non mi avete dato retta.
Vi ho sentito invece accapigliarvi per il rincaro del petrolio;
anche questo merito mio.

Ero qui anche il giorno precedente,
e quello prima ancora, qui dinnanzi alle vostre case sin da quel fatidico 18 marzo 2003,
ho condotto lo scuolabus saltato su una mina destinata ai convogli dei vostri alleati,
ho fatti acquisti in un mercato poco prima fosse vittima dell’ennesimo bombardamento errato,
vi ho portato da vedere i corpi decapitati dalla vostra intelligence,
da saggiare le anime dei torturati a morte delle vostre Abu Ghraib.

Ogni volta ho bussato,
e ogni volta avete finto di non sentirmi,
sino ad Oggi.
Valevano davvero così tanto quei vostri soldatini di stagno?

Ora devo andare, sapete ho tutte queste teste da mozzare,
questi corpi da spolpare, queste membra da amputare
Sono Grata ai governi occidentali per tutto il lavoro che ultimamente mi hanno fornito,
però
forse,
non pensate che meriti un pò di riposo?
Mi mandate in vacanza?
Mi piacerebbe tanto visitare Tehran…
ho già iniziato a studiare il persiano…"
.
…to be continued…

(purtroppo)

questo dialogo immaginario è opera di
vik alias guerrilla radio
,
spesso viceversa.