Rap o Reggae ?

Quando l’ignoranza diventa presunzione

 

Di generi e altre questioni

 

 

 

Recentemente, in occasione della preparazione dell’esame che dovrò sostenere a breve di Letteratura Contemporanea, in uno dei libri a me assegnato- Modi della poesia italiana contemporanea di Giovannetti – mi sono imbattuto in un’affermazione, a dir poco, bizzarra. L’emerito professore di Letteratura Contemporanea dell’Università IULM di Milano – una delle più prestigiose di Milano è d’Italia – nel presentare parallelismi tra la poesia dialettale secondonovecentesca e la “canzone” italiana (anch’essa secondonovecentesca) ha sostenuto: < Se si assume come riferimento primario il 1984, anno in cui Fabrizio De André pubblica il disco Creuza de mà, e se lo si integra con l’anno 1991 quando comincia l’attività discografica del gruppo rap salentino Sud Sound System – uno dei primi a usare il dialetto entro un genere praticato dai giovani neri delle metropoli nordamericane -, si coglie l’eccezionale vitalità delle parlate locali di molte zone d’Italia. > Ora, lasciando stare l’affermazione di principio ( e di fondo) che di per se è corretta – anche se rispetto alla spinta dialettale nella musica italiana è ben più notabile e importante il contributo fornito dai 99 Posse, attivi prima, per altro, dei Sud Sound System – quello che balza subito agli occhi è un errore grossolano e madornale, tanto più inaccettabile quando il contesto in cui viene elaborato è, per così dire, “istituzionale”, accademico. Mi riferisco all’attribuzione dell’etichetta di gruppo rap al gruppo salentino, maggiormente enfatizzata con la comparazione fatta con i gruppi nordamericani iniziatori del genere. È risaputo, anche da chi di musica poco o niente si intende, che i Sud Sound System, praticano un  genere ben diverso da quello rap, le cui radici – oltretutto- sono rintracciabili in aree geografiche completamente diverse (il rap nasce in nordamerica ed il reggae – genere praticato dal gruppo in questione, anche se nella sua variante più diffusa – nasce in Giamaica). Ora, se è pur vero che qualche traccia di rap nei Sud Sound System è rintracciabile, è pur vero che i generi sono diversi, se non opposti. Oltre alla differenziazione ritmica e stilistica (il reggae usa tempi in levare e una certa melodia canora, il rap usa tempi in battere e uno stile canoro assolutamente personale definito “rappata”) è presenta anche quella tematica, che se pur, per certi aspetti vicina, si riferisce a realtà assolutamente diverse. Vedete bene che l’affermazione fatta dal professor Giovannetti è assolutamente errata e tanto più rischiosa quanto pronunciata in un contesto come questo (accademico appunto), e presentata come “verità” a studenti (e professori) che forse ignari la prenderanno per buona. E risulta, oltretutto, offensiva, sia agli appartenenti al genere rap, sia agli appartenenti al genere reggae. Non perché trai due generi vi sia contrasto, ma perché in entrambi, un aspetto fondamentale è l’appartenenza ad un genere, che viene continuamente enfatizzata nei testi.

Questo è quanto, giudicate voi.

 

Esse

IL REVISIONISMO

IL REVISIONISMO

 

Quella pratica tutta italiana

 

 

 

Sono passati circa quindici anni da quell’ormai lontano biennio che segnerà la fine della Prima Repubblica Italiana, portandoci direttamente alla Seconda. Mi riferisco al biennio ’92-’93, epoca luminosa del giornalismo e della magistratura italiane, un po’ meno per quei della politica che, a quel tempo, non se la passavano certo molto bene. Ebbene, dopo quindici anni cosa è cambiato? Pressoché nulla se si considerano i fatti, così come la magistratura impegnata in Mani Pulite e Tangentopoli li ha mostrati allora, però, a voler ben guardare, qualche piccola variazione c’è stata, ma quale? A questo proposito Marco Travaglio nel suo ultimo libro, “La scomparsa dei fatti” ci aiuta a comprendere meglio di chiunque altro quale sia la questione in merito, e precisamente dice: <occorre un fatto nuovo[ ] per modificare la ricostruzione di un fatto storico. Nel caso di Tangentopoli, è avvenuto esattamente il contrario. Finché erano i fatti a dominare la scena[ ]nessun giornalista o intellettuale in buona fede ne mise in dubbio l’esistenza>. I fatti di cui Travaglio parla sono le <tangenti miliardarie scoperte ogni giorno dai magistrati su centinaia di conti esteri> e <quasi sempre confessate da chi pagava, le smistava e le incassava>. Dunque, quello che accompagna l’azione della magistratura, in quegli anni, sono fatti, veri, concreti, inoppugnabili. Fatti, per altro, che i giornalisti di allora si premuravano di sbattere in prima pagina, per sbugiardare e smascherare i <ladroni> che per tutto il decennio precedente ingrassavano la vacca e ubriacavano la moglie senza che nessuno andasse a chieder loro il conto delle spese. E i magistrati – tra i quali certamente il più importante appare l’attuale Ministro delle infrastrutture On. Di Pietro – venivano salutati con l’alzata di cappello, ma che dico, con la distesa del tappeto rosso. Oggi, però, qualcosa appare cambiato, sovvertito. Sembra calata, sui fatti, una coltre densa di fumo, certamente attraversabile da chi è abituato ad accogliere una notizia – una qualsiasi notizia – con capacità critica e di approfondimento, non certo per coloro i quali si accontentano della pappa pronta, non per questo meno importanti, ma certamente più influenzabili a livello mediatico, ed ahimè il maggior numero – se di elettori si parla- . Ma per ritornare all’inizio, come dice Travaglio – e non se l’è certo inventato – i fatti, quelli veri, quelli che sono stati mostrati e dimostrati dalla magistratura e pubblicati dai giornalisti non sono cambiati: le sentenze ci sono state, ci sono stati i sequestri, gli arresti, le restituzioni, le fughe. Però, per quella pratica tutta italiana, che stranamente si manifesta nell’arco della stessa generazione e dalle stesse persone – sto parlando del revisionismo e dei giornalisti che lo praticano – oggi, tende a rivalutare la figura di quei protagonisti negativi – i politici e chi con loro allargava di mese in mese la cinta dei pantaloni – spostando il dito dell’Inquisizione sui magistrati, prima accompagnati da parole eroiche e magnifiche, ora screditati e calunniati come Inquisitori e portatori di peste. Uno su tutti, uno di quei voltagabbana patentati, e per altro tenuto a guinzaglio stretto dai suoi padroni, è Bruno Vespa, che all’epoca di Tangentopoli, riferito a Di Pietro dice: < Mi sento emozionato fin da quando formo per la prima volta il suo numero di telefono [ ]. La voce di Di Pietro è diversa, non ancora indurita dalla stanchezza[ ] sono talmente confuso che riesco a perdermi[ ] Per dire in tv il mio – Viva Di Pietro – aspetto una settimana [ ] Di Pietro è molto sereno. Finora non ha sbagliato un colpo. Il suo segreto è –colpire e affondare -. Due anni dopo però, nel suo salottino tutta azzuro è pronto a cambiare idea. Se è vero che solo gli stupidi non cambiano mai idea, è altrettanto vero che chi la cambia spesso ci aiuta a riconoscerli. Così, come ancora ripete Travaglio: < nella storia vespiana Mani Pulite diventa un orrendo complotto d’ispirazione comunista>, con colpevoli chiamate vittime, e chi professava il suo lavoro con dedizione e coerenza, diviene, nel giro di pochi anni, un <comunista> dal grilletto facile.

Ecco, questo, tutto questo processo di rivalutazione dei colpevoli e calunnia verso i professionisti, prende il nome di revisionismo. In Italia, a differenza che in tutto il resto del mondo, è un processo veloce, che dico, fulmineo, paragonabile al lasso di tempo che passa tra la pressione sul pulsante e l’accensione della luce. Però, – e questi sono solo esempi, gocce nel mare del voltagabbanismo – viene da chiedersi come sia possibile, che chi, certamente a conoscenza dei fatti, non sbugiardi chi cerca, trova e impone revisione. Bhè… per avere risposte a questa e ad altre domande che certo saranno balenate nella mente, leggete “La scomparsa dei fatti” di Marco Travaglio, ed. Il Saggiatore.

 

 

Esse.

auguri…

Non mi è mai piaciuto troppo: apre l’inverno triste e si chiude sempre con amarezza. ma so che a qualcuno piace, perchè in qualche modo ricorda che può esserci, anche se spesso non è così, un poco di rispetto. a questi ultimi, nei quali vedo più fede che speranza, auguro buon natale. a quelli che come me si intristiscono a fronte di tanta ipocrisia, dico che anche questo momento, come tutto, passerà…

auguri da esse.

24/12/2007.

Kefiah

oggi ho ricevuto in dono una kefiah.

e la cosa mi ha reso profondamente felice, per due motivi:
primo, finora non avevo mai avuto una kefiah; questa è la prima.
secondo, questa kefiah mi è stata regalata da una persona che tornava direttamente dai Territori Occupati palestinesi.
e i suoi racconti, insieme ai miei pensieri sul tram del rientro, mi hanno gonfiato per l’ennesima volta il cuore.

insha’allah, zaitself