al culmine della disperazione

non c’è nessuno che, uscendo da un dolore o da una malattia, non avverta nel fondo dell’anima un rimpianto, per pallido e vago che sia. Coloro che soffrono intensamente e a lungo, sebbene desiderino ristabilirsi, non riescono a non pensare alla loro eventuale guarigione come a una fatale perdita. Quando il dolore è parte integrante del proprio essere, il suo superamento corrisponde inesorabilmente a una perdita, e non può non provocare rimpianto. Ciò che ho di meglio in me lo devo alla sofferenza; ma le devo anche ciò che ho perduto. Così non si può amarla né maledirla. Verso di essa provo un sentimento particolare, difficile da definire, strano e ineffabile, dal fascino simile a quello di una luce crepuscolare. La beatitudine nella sofferenza è una mera illusione, perché il suo piacere artificiale nasce dalla necessità di trovare una riconciliazione con la fatalità del dolore, per non esserne completamente distrutti. In questa beatitudine illusoria si annidano le ultime risorse della vita. L’unico assenso che si possa concedere alla sofferenza riguarda il rimpianto di un’eventuale guarigione. Ma questo è talmente indefinito e diffuso che non può cristallizzarsi nella coscienza. Ogni dolore che si smorza si trascina dietro un sentimento di turbamento, come se il recupero dell’equilibrio precludesse l’accesso a regioni torturanti e incantevoli insieme, che non si possono lasciare senza volgersi indietro. Benché la sofferenza non ti abbia rivelato la bellezza, quali altre luci saprebbero catturarti lo sguardo? Non è forse perché queste luci vacillano come se fossero sul punto di spegnersi? Sei ancora attratto dal presagio delle tenebre della sofferenza?

tratto da "Al culmine della disperazione", di E. M. Cioran.
Adelphi edizioni, Milano, 1998.
pg. 86.

zaitself.

le lacrime di nietzsche

"Io lamento la complessità della doppia vita, della vita segreta. Eppure la custodisco come un tesoro. La vita borghese di facciata è mortale, è troppo visibile, se ne vede troppo chiaramente la fine, e tutti gli atti che via via portano a questa fine. Sembra folle, lo so, ma la doppia vita è una vita in più. Offre la promessa di un prolungamento della vita stessa".
Nietzsche annuì.
"Secondo voi il tempo divorerebbe dunque le possibilità della vita di facciata, mentre quella segreta sarebbe inesauribile?"
"Si, non è esattamente ciò che ho detto, però è ciò che intendo. (…)"

pag. 316, Le lacrime di Nietzsche, Irvin D. Yalom.
Neri Pozza editore, 2006.

miss sarajevo

Is there a time for keeping your distance
A time to turn your eyes away
Is there a time for keeping your head down
For getting on with your day

Is there a time for kohl and lipstick
A time for cutting hair
Is there a time for high street shopping
To find the right dress to wear

Here she comes, heads turn around
Here she comes, to take her crown

Is there a time to walk for cover
A time for kiss and tell
Is there a time for different colours
Different names you find it hard to spell

Is there a time for first communion
A time for East 17
Is there a time to turn to mecca
Is there a time to be a beauty queen

Here she comes, beauty plays the clown
Here she comes, surreal in her crown

Dici che il fiume
Trova la via del mare
E come il fiume
Giungerai a me
Oltre i confini
E le terre assetate
Dici che come fiume
Come fiume
L’amore giungerà
L’amore

E non so più pregare
E nell’amore non so più sperare
E quell’amore non so più aspettare

Is there a time for tying ribbons
A time for Christmas trees
Is there a time for laying tables
When the night is set to freeze

– – – – – – – – – – – – – – –

C’è un tempo per mantenere le distanze
Un tempo per distogliere lo sguardo
C’è un tempo per tener giù la testa
Per proseguire la tua giornata

C’è un tempo per la matita e il rossetto
Un tempo per tagliare i capelli
C’è un tempo per le compere nella via principale
Per trovare il vestito giusto da indossare

Eccola, le teste si voltano
Eccola, viene a prendere la sua corona

C’è un tempo per correre al riparo
C’è un tempo per vantarsi dei baci dati
C’è un tempo per bandiere diverse
Diversi nomi che trovi difficili da pronunciare

C’è un tempo per la prima comunione
Un tempo per gli East 17
C’è un tempo per voltarsi verso la Mecca
C’è un tempo per essere una regina di bellezza

Eccola, la bellezza gioca a fare il clown
Eccola, surreale con la sua corona

[ It’s said that a river
Finds the way to the sea
And like the river
You shall come to me
Beyond the borders
And the thirsty lands
You say that as a river
Like a river…
Love shall come
Love…

And I’m not able to pray anymore
And I cannot hope in love anymore
And I cannot wait for love anymore ]

C’è un tempo per fare fiocchi
Un tempo per gli alberi di Natale
C’è un tempo per apparecchiare le tavole
Quando la notte è bloccata dal gelo

– – – – – – – – – – – – – – –

U2 & Luciano Pavarotti.

L’idea per la canzone è frutto della collaborazione con il giornalista Bill Carter regista del documentario omonimo. Dal palco dello ZooTV, gli U2 fecero numerosi collegamenti in diretta con Bill Carter a Sarajevo per sensibilizzare il pubblico europeo sulla sanguinosa guerra in Bosnia.
Nell’esecuzione dal vivo del 12/9/1995, a Modena al "Pavarotti and Friends", Alla fine di "Miss Sarajevo" Bono cita il poema croato "Dubrovka" (cioè "La ragusea", o "La ragazza di Dubrovnik"), scritto nel 17° secolo da poeta Ivan Gundulić (in italiano "Giovanni Gondola", anch’egli nativo di Ragusa/Dubrovnik): "O lijepa, o draga, o slatka slobodo." che significa: "Oh bella, oh cara, oh dolce libertà."

La cosa più affascinante di Sarajevo è appunto questa testarda urbanità che soppravvive agli inverni, ai cannoni, alle restrizioni alimentari, all’assenza di luce, acqua e gas. Non capisco davvero perché le grandi televisioni mondiali siano andate laggiù a cercare immagini di morte. Non hanno capito nulla. In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita. Il suo centellinare ogni residuo comfort, il suo attaccamento testardo ai riti di un’antica vita borghese. A due passi dal rancido delle trincee, i teatri funzionavano, la gente sapeva di sapone, le donne mettevano il rossetto e facevano la messa in piega, persino i soldati tornavano dal fronte con una loro pallida, estenuata nobiltà.
Nella moviola della mia mente, Sarajevo è un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua, è il vecchio Mujo Kulenović che aggiusta il tetto della bottega, è un musulmano che in centro quasi si inchina davanti a un parroco cattolico. Sarajevo è una pentola che non ha mai toccato carne di maiale e che nelle case ortodosse e cattoliche è sempre pronta per gli ospiti di religione islamica; è Kanita Fočaka che a trecento metri dalle linee serbe apre una scuola di buone maniere; è una fila di bambini disciplinati che vanno, in mezzo alla guerra, a imparare il bon ton.
(Paolo Rumiz, da "Maschere per un massacro", Editori Riuniti, Roma 1996)

tutto il materiale è tratto dal sito "Canzoni contro la guerra", e precisamente da qui .

zaitself

"Le notti bianche", di Fedor Dostoevskij

finalmente, dopo 4 anni, ho letto questo racconto.
70 pagine, tutte oggi. bellissime.

peace, .zaitself

"Mi viene in mente, senza volerlo, l’immagine di una fanciulla malata, deperita, che noi guardiamo talvolta con un senso di compassione, talvolta con mesto affetto, e talvolta non notiamo neppure, una fanciulla la quale ad un tratto diventa meravigliosamente bella. Allora ci si chiede stupiti e inebriati: "Quale potere dà un tale splendore, un tale fuoco, a questi occhi, prima tristi e pensosi? Chi ha fatto rifluire il sangue in queste gote, finora pallide e scarne? Quale passione ha illuminato i dolci lineamenti di questo volto? Perché questo petto ansima così? Che cosa ha dato all’improvviso salute, vita e bellezza al volto di questa povera fanciulla? Che cosa gli ha dato lo splendore di questo sorriso e l’ha ravvivato con questa risata scintillante?" Ci si guarda intorno, si cerca qualcuno, si indovina. Ma l’attimo fugge. Il giorno dopo si incontra nuovamente quello sguardo, pensoso e distratto come prima; si rivede quel volto pallido, quella timida lentezza dei movimenti; si nota anche una certa espressione di pentimento, si notano le tracce di una mortale tristezza per quell’effimero godimento… E ci si affligge per la scomparsa di quella bellezza fuggitiva, svanita tanto presto e irrevocabilmente, la quale, ingannevole, ha brillato invano davanti ai nostri occhi. Ci si affligge di non aver avuto il tempo di amarla…
[…]
Camminavo e cantavo, poiché, quando sono felice, ho l’abitudine di canticchiare qualcosa, come fa ogni uomo felice, il quale, non avendo amici, e neppure buone conoscenze, non sa con chi dividere la propria gioia."

pag. 8.


"Ah! Se sapeste quante volte sono stato innamorato in questo modo…
– Ma come? E di chi?
– Di nessuno, di un essere ideale che mi appare in sogno. In sogno io creo interi romanzi. Ah! Voi non mi conoscete! Non posso vivere senza sognare, è vero. Ho incontrato due o tre donne, ma che donne. Erano tutte borghesucce tali, che… Ma riderete se vi dico che qualche volte mi è venuta l’idea di attaccar discorso, così, semplicemente, con una gran dama qualsiasi, per la strada, quando era sola, naturalmente. Pensavo che avrei cominciato a parlare timidamente, s’intende, rispettosamente, appassionatamente. Le avrei detto che la solitudine mi fa morire, così ella non mi avrebbe respinto! Le avrei detto che non avevo modo di conoscere nessuna donna; l’avrei convinta che una donna ha il dovere di non respingere la preghiera di un uomo sfortunato come me. Non chiedevo che due sole parole, fraterne, pronunziate con un sentimento di simpatia. Desideravo di non esser respinto mentre facevo il mio primo passo. Imploravo che ascoltasse ciò che volevo dirle, che ridesse pure di me se le faceva piacere, ma che mi lasciasse un pò di speranza, che mi dicesse due parole, due parole sole… Poi, magari, non ci saremmo incontrati più!… Ma voi ridete! Del resto, parlo soltanto per farvi ridere…"

pag. 12.

"- Tornerò qui domani, – dissi io. – Perdonatemi. Io pretendo già…
– Si, voi siete impaziente… e quasi pretendete…
– Ascoltate, ascoltate! – interruppi. Perdonatemi se ve lo dico di nuovo… Ma, ecco, domani non posso fare a meno di venire qui. Sono un sognatore. Nella mia vita c’è così poca realtà, e di momenti come questi ne ho così pochi, che non posso rinunziare a riviverli in sogno. Vi sognerò tutta la notte, tutta la settimana, tutto l’anno. Domani tornerò qui, immancabilmente, e proprio in questo medesimo luogo, a quest’ora, e ricordando quest’ora sarò felice. Questo luogo mi è già caro. A Pietroburgo vi sono due o tre luoghi simili. Una volta mi son messo a piangere per un ricordo, come voi… Poiché, forse, anche voi, dieci minuti fa, piangevate per un ricordo… Ma, perdonatemi, mi confondo di nuovo… Voi, forse, siete stata, qui, una volta, particolarmente felice…"

pag. 14.

"Il sognatore fruga invano tra i vecchi sogni, come fra la cenere, cercandovi una piccola scintilla, per soffiarci sopra e riscaldare col fuoco ridestato il proprio cuore freddo e per farvi risorgere ciò che lo commuoveva, che gli faceva ardere il sangue, che gli strappava le lacrime dagli occhi e lo illudeva meravigliosamente. Non sapete, Nasten’ka, fin dove io sia giunto? Non sapete che son costretto a festeggiare l’anniversario dei miei sentimenti, l’anniversario di ciò che mi era prima tanto caro, ma che non è mai realmente esistito, poiché questo anniversario festeggia quegli stupidi sogni incorporei, che debbo ricordare, altrimenti nulla resterebbe di essi. Non sapete che in alcune date fisse io amo ricordare e visitare i luoghi dove fui felice, che amo ricostruire il presente nell’eco di un passato irrevocabile, che spesso girovago come un’ombra, senza scopo e senza mèta, malinconico, per le vie tortuose di Pietroburgo? Quali rimembranze!"

pag. 32.

Questo racconto, apparso nel dicembre 1848, s’impernia sualla figura del "sognatore", figura così cara a Dostoevskij, che egli pensò persino di scrivere, nel 1876, un romanzo con questo titolo. Hoffman e Walter Scott sono gli ideali del protagonista intellettuale "senza storia", vagabondo incline ai sofismi, timido sognatore che passa come un’ombra ai margini della realtà. Estraneo agli interessi meschini, egli reagisce alla grettezza del mondo, rifugiandosi nelle immagini della sua calorosa fantasia. Staccato così dalla vita, condanna se stesso a una penosa solitudine. Egli è prigioniero delle proprie visioni, e le prospettive immaginose, gli sciami dei sogni, pur avvivando la sua esistenza squallida, squallidissima, gli offuscano il senso della concretezza terrena.
Perdendo gli anni migliori, il sognatore finisce col sostituire un’inerte impalcatura di illusioni al brulichìo della vita. Di questo mondo artificiale, che il panorama di Pietroburgo rende più allucinato, egli sente l’inconsistenza e la vanità; soffre di non saper vivere come gli altri, ma non riesce a districarsi dal vischio delle fantasie.

dalla nota introduttiva di Angelo Maria Ripellino.


tratto da "Le notti bianche",
di Fedor Dostoevskij. Einaudi, 1983.

IL MURO, di J.P. SARTRE

Sapeva che le sofferenze, le letture serie, un’attenzione costante e rivolta ai suoi ricordi, alle sue sensazioni più squisite l’avrebbero maturata come un bel frutto di serra.

"Ma guarda un poco: eri carina, allegra e intelligente, ti stai distruggendo per capriccio e senza profitto. Ebbene, siamo d’accordo, sei stata ammirevole, ma ecco ora è finito, hai fatto tutto il tuo dovere, più del tuo dovere; adesso sarebbe immorale insistere."

"C’è un muro tra te e me. Io ti vedo, ti parlo, ma tu sei dall’altra parte."

tratto dal racconto "La camera".

"Lo conosco , il tipo." mi disse. "Si chiama Erostrato. Voleva divenir celebre e non ha saputo trovar niente di meglio che bruciare il tempio di Efeso, una delle sette meraviglie del mondo."
"E come si chiamava l’architetto?"
"Non me lo ricoro più", confessò, "credo persino che non se ne conosca il nome".
"Davvero? E vi ricordate del nome d’Erostrato? Vedete che non aveva del tutto sbagliato il suo calcolo."

tratto dal racconto "Erostrato".

Provava un amaro senso d’orgoglio. "Ecco che cosa significa essere fortemente attaccati alle proprie opinioni; non si può più vivere in società".
[…]
Ma la sua collera era caduta; rivedeva con una specie di malessere il viso stupito di Weill, la sua mano tesa e si sentì portato ad essere conciliante: "Pierrette penserà sicuramente che sono una bestia. Avrei dovuto stringergli la mano. Dopo tutto, questo non mi comprometteva. Fare un saluto molto riservato e allontanarmi subito dopo: ecco cosa dovevo fare".
[…]
E cercò di attingere un pò di conforto nella contemplazione di quest’odio sconfinato. Ma esso si sciolse sotto il suo sguardo; (…) egli non provava nient’altro che una cupa indifferenza.

tratto dal racconto "Infanzia di un capo".


da "Il Muro", di Jean-Paul Sartre.
Oscar Mondadori, ed. 1974.


zaitself.